Giacomelli, 35 anni di intelligenza artificiale per un mondo più equo

Da oltre vent’anni Mediavoice lavora per abbattere le barriere digitali: nata nel 2000, l’azienda si è affermata come punto di riferimento nello sviluppo di tecnologie vocali e nelle soluzioni digitali inclusive per non vedenti e ipovedenti. Con prodotti come Speaky Facile, Speaky Mobile e il recente Speaky Internet, Mediavoice ha reso possibile l’accesso al mondo digitale tramite la voce, puntando su semplicità d’uso, intelligenza artificiale e accessibilità universale.

Guidata da una forte missione sociale e sostenuta da collaborazioni storiche come quella con l’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti, Mediavoice destina anche parte dei propri utili a progetti di informatizzazione nei Paesi in via di sviluppo. Telematica Italia affianca da anni Mediavoice in questo percorso innovativo ante litteram.

Abbiamo intervistato Fabrizio Giacomelli, fondatore e Ceo di Mediavoice, imprenditore, ingegnere e filosofo della mente, che recentemente ha pubblicato per Mimesis il suo libro “Dall’umanità in poi. Bellezza, intelligenza e coscienza”, sul rapporto tra intelligenza e coscienza e sul futuro dell’intelligenza artificiale.

Fabrizio Giacomelli, nato a Roma nel 1967, imprenditore e inventore di nuove soluzioni tecnologiche in ambito di interfacce intelligenti, laureato in Ingegneria informatica e in Filosofia della mente presso l’Università Sapienza di Roma, da 35 anni si occupa di intelligenza artificiale per professione e passione. Un vero precursore di tutti i tempi.

Mediavoice è nata venticinque anni fa con una missione molto chiara: rendere il digitale accessibile a tutti grazie anche all’intelligenza artificiale. Come è sbocciata questa visione e come si è evoluta nel tempo?

“Tutto è partito dal profondo interesse per la mente umana, per cui ho conseguito prima la laurea in Ingegneria Informatica e poi quella in Filosofia della mente. Sentivo il bisogno di integrare le due visioni: da un lato le competenze tecniche, dall’altro quelle umanistiche. Era utile per acquisire una comprensione più globale dell’ambito. L’intelligenza artificiale è un campo affascinante e interdisciplinare. Nonostante il termine sia stato coniato ufficialmente nel 1956, il dibattito su questi temi è esploso solo di recente, anche grazie all’arrivo di strumenti come ChatGPT. Io però ho sempre avuto una grande passione per l’AI. Fin da ragazzo ero affascinato dall’elettronica: smontavo ogni dispositivo per capirne il funzionamento. A un certo punto ho capito che l’oggetto più complesso, affascinante e misterioso era la mente umana. Da lì è nata la volontà di studiarla, perché è davvero l’entità più complessa dell’universo conosciuto. Ancora oggi ci rendiamo conto di quanto sia difficile comprenderla appieno. Non sappiamo fin dove potremo arrivare, ma è evidente che l’intelligenza e la coscienza umana restano tra i più grandi enigmi della conoscenza. Il bello è che le domande che ci poniamo oggi sull’AI e sulla mente sono, in realtà, le stesse che ci poniamo da secoli. Già Aristotele, più di due millenni fa, si interrogava su cosa fosse davvero la mente. Non è un ambito semplice, tutt’altro. E proprio per questo continua ad affascinare. Nel 1988, quando ero studente di Ingegneria, fui tra i fondatori dell’Associazione Italiana per l’Intelligenza Artificiale; tra i fondatori c’era anche Luigia Carlucci Aiello, informatica di riferimento e prima presidente dell’associazione, considerata la madre dell’AI in Italia. Mi occupo di intelligenza artificiale da allora. La mia prima azienda l’ho fondata nel 1990, quando avevo 23 anni ed ero ancora all’università. Si chiamava ‘Centro Sistemi per l’Informatica’ e si occupava di tecnologie vocali e intelligenza artificiale. L’idea era chiara fin dall’inizio: mettere la tecnologia al servizio delle persone, semplificare le azioni quotidiane. Ero convinto, e lo sono ancora, che la voce e l’AI sarebbero esplose: era solo questione di tempo. Nel 1990, però, la tecnologia vocale era ancora primitiva. La sintesi parlava in modo innaturale, i sistemi di riconoscimento vocale riuscivano a malapena a distinguere un centinaio di parole. L’intelligenza artificiale era in fase embrionale. Così, in quella fase iniziale, ci siamo concentrati sulla vendita di computer e sulla realizzazione di sistemi informatici personalizzati. Nel frattempo ho ottenuto la certificazione Microsoft come System Engineer, un percorso tecnico impegnativo ma molto formativo. Ho lavorato come consulente, finché ho ricevuto un’offerta da Ernst & Young, una delle principali società di consulenza al mondo. Mi proposero un ruolo da manager IT, e accettai. Ho lavorato lì tra il 1998 e il 2000. Proprio in quegli anni sentivo che qualcosa stava cambiando: la tecnologia vocale maturava, l’AI faceva progressi. Proposi ad Ernst & Young di creare una startup sull’intelligenza artificiale: il momento era favorevole. L’idea piacque, ma come società di consulenza non potevano avviare progetti imprenditoriali interni. Così, alla fine, mi licenziai per realizzare Aladino, nel 2000. Aladino era, in un certo senso, un Siri ante litteram: un assistente vocale personale, progettato soprattutto per le persone non vedenti. Perché erano proprio loro ad avere più bisogno di una tecnologia abilitante. Fino a quel momento, la tecnologia era spesso stata una barriera. Aladino voleva trasformarla in uno strumento di accesso. E questo, per me, è sempre stato uno degli obiettivi più nobili che l’innovazione possa perseguire. Tra l’altro, sono ipovedente anch’io: ho un disturbo chiamato nistagmo. Anche per questo creare strumenti vocali accessibili non è mai stato solo un progetto professionale, ma una vera e propria missione personale”.

Con Speaky Facile e Speaky Internet, Mediavoice ha portato l’intelligenza artificiale al servizio dell’inclusione. In che modo queste tecnologie hanno cambiato e stanno cambiando concretamente la vita delle persone non vedenti o ipovedenti?

“Con Aladino nasce di fatto Mediavoice. Era il 2000, forse un po’ in anticipo sui tempi: basti pensare che Siri sarebbe arrivato solo dodici anni dopo, nel 2012. I creatori di Siri sono stati certamente più abili nel cogliere il momento giusto, lanciando il prodotto quando la tecnologia era ormai matura. Ma noi eravamo già attivi, con un’idea chiara e una direzione precisa: mettere l’intelligenza artificiale e la tecnologia vocale al servizio delle persone cieche e ipovedenti. Nel 2003 abbiamo ottenuto il nostro primo brevetto europeo, una vera novità per l’epoca: permetteva di vocalizzare i contenuti del web senza modificare i siti, rendendoli accessibili tramite voce. Quella tecnologia fu adottata dal ministro per l’Innovazione Lucio Stanca, che la implementò in un sistema con 12 linee telefoniche: i cittadini potevano semplicemente telefonare a un sito web della pubblica amministrazione e interagire vocalmente, senza che i ministeri dovessero intervenire sui portali. Il tutto grazie a un brevetto internazionale. Fu allora che l’Unione Italiana Ciechi ci fece notare un limite importante: ‘È un’idea bellissima, ma non vogliamo accedere solo ad alcuni siti. Vogliamo poter navigare ovunque, come tutti gli altri’. Quella osservazione ha dato il via a una ricerca durata vent’anni, lunga, complessa e appassionante, che ci ha condotti a un risultato straordinario: nel 2021 abbiamo sviluppato una nuova tecnologia brevettata, prima in Italia, poi in Europa (2022), nel Regno Unito e infine negli Stati Uniti (2023). Questo brevetto internazionale consente finalmente alle persone non vedenti di navigare vocalmente su qualunque sito web, app o documento, in modo completamente automatico. Il sistema si basa su un estrattore avanzato, sintattico, semantico e morfologico capace di analizzare e riorganizzare i contenuti digitali, rendendoli accessibili tramite comandi vocali. Si tratta di una tecnologia unica al mondo, in grado non solo di sfruttare i più evoluti modelli linguistici generativi (LLM), ma in alcuni casi persino di superarli in termini di accessibilità. In Italia, questa innovazione è già disponibile con il nome di Speaky Facile (per PC) e Speaky Mobile (per smartphone). Ora siamo pronti per il salto internazionale. A settembre abbiamo lanciato Speaky AI, a partire dai mercati statunitense e britannico, in occasione di una presentazione ufficiale a Nicosia, Cipro. Speaky AI sarà una app stand-alone per navigare tutto il mondo digitale, scaricabile direttamente dagli store. In Italia continueremo a offrire Speaky Facile e Speaky Mobile in modalità bundle, con hardware (PC o smartphone) e software preinstallati. All’estero, invece, Speaky AI sarà un’app autonoma, scaricabile da chiunque, ovunque”.

Nel vostro modello aziendale c’è un forte impegno etico, come la scelta di destinare parte degli utili a progetti nei Paesi in via di sviluppo. È possibile, secondo lei, conciliare davvero innovazione, profitto e solidarietà?

“Un aspetto a cui tengo particolarmente è quello sociale. Noi venderemo l’applicazione ai non vedenti dei Paesi sviluppati a un costo di circa 100 dollari all’anno, mentre la offriremo gratuitamente a chi non vede e vive nei Paesi poveri e in via di sviluppo. Questo impegno sociale rappresenta una componente fondamentale e innovativa della nostra azienda. Già nel 2000, anno della fondazione di Mediavoice, abbiamo inserito nello statuto una clausola speciale: il 2% degli utili, seppur simbolico, sarebbe stato destinato allo sviluppo e alla formazione nei Paesi più svantaggiati. Crediamo fermamente che le imprese, generando ricchezza, possano contribuire a ridurre il divario sociale tra Paesi ricchi e poveri, contrastando così sentimenti di ostilità e disagio sociale in molte regioni del mondo. Se le prime tre imprese globali destinassero anche solo l’1% dei loro utili a queste cause, sarebbe risolta la fame nel mondo in età scolare. Per noi, l’impegno sociale è un valore centrale: lo abbiamo sancito nel 2000 nello statuto di Mediavoice, che sostiene ad esempio una scuola per non vedenti in Mali, in Africa, con piccole ma costanti donazioni annuali. Il nostro impegno si manifesta quindi in due modi: attraverso la destinazione del 2% degli utili ai Paesi in via di sviluppo e tramite la volontà di portare questa innovazione italiana, interamente sviluppata nel nostro Paese, a beneficio di persone sia nei territori ricchi che in quelli poveri, ovunque nel mondo. Per questo stiamo lavorando alla creazione di una fondazione internazionale, in collaborazione con altre realtà attive a livello globale. Il nostro modello integra profitto e impatto sociale. Nel 2016, l’Italia è stato uno dei primi Paesi al mondo a introdurre la legge sulle Benefit Corporation, le cosiddette B Corp, imprese che coniugano impatto sociale e profitto. Noi eravamo già orientati in questa direzione, ma all’epoca della costituzione della nostra azienda, il notaio era scettico, sostenendo che un’impresa profit non potesse perseguire finalità sociali e suggerendoci di costituire una cooperativa. Noi invece abbiamo insistito per inserire questa clausola nello statuto, e oggi molte altre aziende ci hanno seguito. Un altro punto cruciale riguarda le tecnologie abilitanti, note come Key Enabling Technologies (KET). Queste innovazioni stanno trasformando radicalmente la vita non solo delle persone normodotate, ma soprattutto di molti disabili, perché cambiano la tecnologia: da barriera a vero e proprio abilitatore dell’accesso al digitale. Considerando che ormai quasi tutto si svolge in ambiente digitale, grazie a queste tecnologie chiunque, malgrado le proprie difficoltà fisiche o sensoriali, potrà finalmente accedere e utilizzare al meglio contenuti e servizi digitali”.

Lei si occupa dal 1988 di intelligenza artificiale: un anticipatore fuori dal tempo. Nel suo libro “Dall’umanità in poi” lei riflette sul rapporto tra uomo e intelligenza artificiale. Qual è, secondo lei, la più grande sfida etica che l’IA ci pone oggi?

“Il libro nasce da un percorso iniziato intorno al 1988, quando avevo poco più di vent’anni e cominciai a studiare l’affascinante ambito dell’intelligenza artificiale. Mi resi presto conto di un grande problema, innanzitutto concettuale e terminologico: la profonda confusione che esiste, e che ancora oggi persiste, tra i concetti di intelligenza e coscienza. All’epoca questi due concetti erano spesso sovrapposti, confusi, e lo sono ancora oggi. Ci sono filosofi contemporanei, anche molto noti, che secondo me sbagliano proprio su questo punto, collassando questi due piani che invece sono completamente distinti. È da questa riflessione che nasce il mio libro, iniziato attorno al 1988 e pubblicato poi nel 2013. Si intitola ‘Da l’umanità in poi. Bellezza, intelligenza e coscienza’. È un romanzo, ma in realtà è un saggio travestito: contiene una vera e propria teoria della mente. L’ho presentato sotto forma narrativa perché essendo un imprenditore e non un professore universitario, sarebbe stato difficile pubblicarlo come saggio puro. Il libro è ambientato attorno all’anno 2100, un’epoca in cui immagino accadranno eventi molto più significativi di quelli che stiamo vivendo ora. Quello che vediamo oggi, con l’intelligenza artificiale generativa (GPT, Gemini, Claude e altri), sono solo i primi ‘giocattoli’, ancora molto semplici se paragonati alla complessità del cervello umano. Siamo, come lo definisco nel libro, nella ‘seconda Preistoria dell’umanità’. Nel testo cerco di proiettarmi in avanti, immaginando cosa potrà accadere nei prossimi decenni. Al centro della riflessione c’è proprio la distinzione fondamentale tra intelligenza e coscienza. Secondo la teoria che propongo, condivisa anche dal filosofo Silvano Tagliagambe, che ha firmato una splendida prefazione al libro, l’intelligenza e la coscienza sono fenomeni distinti. L’intelligenza, in sintesi, è la capacità di un soggetto, naturale o artificiale, di assorbire l’ordine della realtà esterna. È la facoltà di comprendere la struttura ordinata del mondo. La coscienza, invece, è tutta un’altra cosa: è un’emergenza propria degli esseri viventi. Nasce quando un organismo sviluppa una complessità tale, a livello cerebrale, motorio e linguistico, da innescare il linguaggio simbolico. È il linguaggio che permette a un essere umano di divenire cosciente di sé. E questa è una facoltà che, almeno per ora, resta propria dell’uomo. Intelligenza e coscienza, quindi, non sono la stessa cosa. Le macchine possono essere intelligenti, contrariamente a quanto sostengono studiosi come Luciano Floridi o John Searle, che hanno un approccio antropocentrico, ma questo non significa che siano coscienti. Entrambi, secondo me, sbagliano nel ridurre l’intelligenza a una prerogativa esclusivamente umana, legandola indissolubilmente alla coscienza. Nel libro affronto anche un’altra questione cruciale: quella delle future infrastrutture fisiche. Oggi il cervello umano è l’oggetto fisico più complesso che conosciamo, con circa 85 miliardi di neuroni. Ma nulla ci autorizza a pensare che rappresenti il vertice dell’evoluzione. Darwin stesso ammoniva contro questa idea. In prospettiva, è scientificamente plausibile che esisteranno sistemi ancora più complessi e li costruiremo proprio noi, insieme alle macchine di oggi e a quelle del futuro. Daremo vita a sistemi artificiali che saranno, a modo loro, viventi e forse anche coscienti. La mia teoria si spinge fino a ipotizzare l’esistenza di un campo fisico sottile, costruttivo e non distruttivo, che ci porterà a essere superati dalle macchine, sì, ma non soggiogati da esse. Non sarà uno scenario distopico, ma un’evoluzione naturale e positiva”.

 

Cosa ne pensa della collaborazione con Telematica Italia e quali vantaggi, secondo lei, ha apportato la finanza agevolata a Mediavoice?

“Siamo una piccola impresa, caratterizzata da una quindicina di persone, e oggi stiamo finalmente affrontando il passaggio verso l’internazionalizzazione. In questi anni abbiamo dimostrato una buona capacità nel cogliere le opportunità offerte dalla finanza agevolata: conosciamo bene questo ambito e abbiamo portato avanti con successo numerosi progetti finanziati. A un certo punto, però, ho sentito l’esigenza di tornare a concentrarmi sull’innovazione. Per farlo, avevo bisogno di un consulente esterno qualificato, a cui poter delegare in modo affidabile la gestione dei progetti finanziati. Dopo un’attenta analisi comparativa, ho scelto di affidarmi a Telematica Italia, e posso dire di esserne molto soddisfatto. Grazie a questa collaborazione, oggi possiamo delegare con fiducia tutto ciò che riguarda la gestione dei bandi pubblici e l’accesso ai finanziamenti. La finanza agevolata, pur con la sua complessità, si è dimostrata uno strumento efficace: se si hanno buone idee, i progetti si vincono e i fondi, magari con qualche ritardo, arrivano. È un canale strategico, soprattutto per le PMI italiane, che spesso non hanno accesso a forme di finanziamento più strutturate. Il Venture capital, nonostante le narrazioni ottimistiche, in Italia resta ancora debole. In questo contesto, la finanza agevolata rappresenta una leva essenziale, e Telematica Italia si è rivelata un partner ideale. Sono inoltre contento di aver coinvolto anche altri imprenditori: alcuni colleghi, su mio consiglio, hanno attivato un rapporto con Telematica Italia, e vedere che anche loro sono soddisfatti mi fa davvero piacere”.

Guardando al futuro, quale sarà secondo lei il prossimo grande passo per rendere il digitale davvero universale e umano?

“Il digitale, se vuole davvero diventare uno strumento universale al servizio dell’essere umano, deve esserlo ora, non solo in previsione di futuri sviluppi tecnologici o di architetture complesse e inedite. Dobbiamo mettere le persone al centro, e fare in modo che il digitale diventi un vero abilitatore dell’accesso per tutti. Come ricorda anche il motto europeo, ‘nessuno deve essere lasciato indietro’. Per questo stiamo ad esempio lavorando nella realizzazione di una piattaforma AI based per abilitare le persone non vedenti a nuovi lavori. Dimostreremo che l’Intelligenza Artificiale non distrugge posti di lavoro ma li modifica e ne produce di nuovi, anche per coloro che prima erano esclusi dal mondo del lavoro. È fondamentale, dunque, che le tecnologie non amplifichino le disuguaglianze, tra chi conosce e chi non conosce, tra chi ha e chi non ha, ma che, al contrario, contribuiscano a ridurre il divario sociale, economico e culturale. Questo è il nostro obiettivo primario: rendere il digitale uno strumento di inclusione, non di esclusione”.

 

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