La regola sui revisori del Mef negli organi di controllo dei beneficiari di contributi pubblici, introdotta dal Governo nel Ddl di bilancio approvato a metà ottobre, ha avuto fin qui una vita breve ma assai travagliata, scandita da riformulazioni continue che nel testo approvato dalla commissione Bilancio della Camera hanno finito per archiviare l’idea stessa di spedire nuovi controllori ministeriali nelle realtà pubbliche e private.
Le lunghe trattative fra il ministero dell’Economia che ha promosso le nuove verifiche e in particolare Forza Italia che le ha bollate come «norma Stasi», vedendo negli ispettori ministeriali seduti anche negli organi di aziende private una rievocazione della polizia politica della Ddr, si è però concentrata sui primi tre commi della regola, conducendo fino all’abrogazione secca dei primi due. Scompaiono quindi i revisori ministeriali, sostituiti da una relazione annuale da parte degli organi di controllo di «società, enti, organismi e fondazioni che ricevono un contributo di entità significativa a carico dello Stato», e sparisce anche la soglia dei 100mila euro, lasciando il compito di stabilire «l’entità significativa» degli aiuti a un successivo decreto di Palazzo Chigi (Il Sole 24 Ore di ieri).
L’architettura dei controlli anti abusi studiati a Via XX Settembre contemplava però anche un secondo pilastro, che è stato però dimenticato dopo le polemiche iniziali e che quindi è arrivato intatto nel maxiemendamento su cui sarà votata la fiducia nell’Aula di Montecitorio oggi in tarda mattinata, prima dell’approvazione della manovra questa sera. Che cosa prevede questa seconda parte?
Alle solite «società, enti, organismi e fondazioni» titolari di contributi pubblici significativi, la regola impone una sorta di spending review, in forme già viste negli enti pubblici ma mai sperimentate, ovviamente, nelle società private. «Tali soggetti - si legge all’attuale comma 858 figlio del maxiemendamento - a decorrere dall’anno 2025 non possono effettuare spese per l’acquisto di beni e servizi per un importo superiore al valore medio sostenuto per le medesime finalità negli esercizi finanziari 2021, 2022 e 2023, come risultante dai relativi rendiconti o bilanci deliberati».
Un tetto del genere appare piuttosto complicato da applicare a un’azienda privata che, per esempio, ha ricevuto uno sconto fiscale per Transizione 4.0 o per il bonus ricerca e sviluppo, anch’essi rientranti nel novero dei contributi a carico dello Stato ricevuti «anche in modo indiretto e sotto qualsiasi forma» come recita la formula omnicomprensiva utilizzata dalla norma. E la questione si complica nelle aziende più grandi, e in quanto tali prime candidate a rientrare nei criteri di «significatività» che accendono le nuove verifiche. Perché è difficile immaginare di poter limitare per legge le spese per gli acquisti di un’impresa privata, che magari essendo in fase di sviluppo vede inevitabilmente crescere il proprio sforzo finanziario in molte direzioni.
La lettera della norma, però, non pare ammettere eccezioni. Tanto che il problema di una spending review pubblica su aziende private sembra essere balzato agli occhi dello stesso Mef, che in una delle tante riformulazioni delegava al decreto attuativo «l’individuazione delle tipologie di contributi e delle categorie di soggetti da escludere». Ma quel testo è caduto sotto i colpi delle obiezioni bipartisan perché non cancellava i revisori ministeriali. Nel convulso taglia e cuci finale, quindi, al decreto resterebbe solo il compito di individuare la soglia di «significatività». E sembrerebbe chiudersi così la via interpretativa per ridurre i confini dell’applicazione ed escludere i privati. Sempre che si voglia farlo, come chiede tra gli altri anche il Forum del Terzo settore, investito in pieno da questa nuova spending review giudicata «del tutto inaccettabile oltre che incomprensibile ».
Fonte: Il Sole 24 Ore, Primo Piano del 20 dicembre 2024